PAOLO POLVANI, Poesie

FATTI SENTIRE

Te ne sei andata senza spiccioli, senza
passaporto, ti lasceranno entrare ? Aprile
ti prenderà in consegna?
Allora tornerai? il sorriso e il pianto
bussano alla tua porta ma tu non vai ad aprire.

Altri traguardi premono. Te ne vai con i segni
di una lotta di radici e d’aria, di terra
e di pura necessità. Non ci domandiamo nemmeno
chi siano gli sconfitti. E gli orecchini?
E adesso le tue bambole? le fotografie?

Sei semplicemente salita sul convoglio della morte.
Ora aspettiamo la pioggia e il tuo ritorno.
Ma tu non tornerai. Il traffico
non ti riguarda più, il sole
non picchierà alla tua finestra.
Hai orizzonti indecifrabili per noi.

Di tangibile c’è tutto il nostro disappunto.
Non vuoi preparare la lezione, non vuoi
mettere la torta in forno, o aprire il frigorifero.
Né guardare il mare.
Anche l’amore ti risulta estraneo.

Il cielo assedia la tua nuova casa
e non smetteremo di pensarti.

Ma tu fatti sentire.

 

CARAMELLE

Verrò in via delle vigne quattordici a passarti
l’ultima delle mie caramelle, è lì che abita
in forma di zucchero l’orto di tua madre
e si gonfiano di rosso i pomodori nel cerchio
delle alpi e l’insalata
ha il suono familiare di una porta che sbatte.

Gli autunni vengono con passo leggero e io
mi arrampicherò sul tuo accento di montagna,
sulle gutturali che sono rocce aspre, su certe
consonanti che imitano il tumultuoso gorgoglio
dei torrenti. Le tue mani forse mi cercavano,
tentavano un approdo, ma tu lo sai
che il nostro sole è la solitudine
e la promessa di non vederci più
è già nei nostri passi.

L’ho visto il gatto, e quella lunga scia di tristezza.
Ho visto la fabbrica e la fretta dei viaggi.

Le mani si cercavano e ridevi di un riso
notturno e c’era la pioggia e il buio
e il momento era perfetto per perdersi,
per scivolare via come un addio.

 

UN INVENTARIO DELLA LUCE

Com’è limpido il cielo e come sgorga.

Sono qui per fare un inventario della luce,
per dare alle pupille le case disseminate
nel paesaggio dell’alba priva di vento.

Sono qui per mietere a piene mani.

 

BAMBINE IN CORSA

Tu conservi il perimetro di vento
di certe bambine deliziose che hanno pianto.

La tua magrezza possiede l’astuzia di una gazza.

Tu corri e il mare
sorride alla coda di cavallo che svolazza.

 

UN PICCOLO FUOCO

Scrivimi.

Mandami un piccolo fuoco,
una striscia di cielo,
una schiera
di sillabe,
un itinerario veloce, matite,
i tuoi confini, una mappa.

Scrivimi.

Uno spartito di adagi
e silenzi,
il sapore di luce
delle parole,
la distanza di un gatto, il mare,
il perimetro dello sguardo.

Un assaggio, un graffio
di solitudine pungente
come la pioggia alla fermata degli autobus,
un calendario propizio, il fruscio
del vestito, una lampada,
un pettine, confondimi
in un labirinto di luci.

Vedi,
mi aggrappo ai dettagli, annaspo
in un’ansa di vuoto,
smarrisco dicembre, dimentico
i pomeriggi in città,
le finestre.

Ma tu rovescia il mio buio, affrettati
a esistere.

Scrivimi.

 

IL CONFINE DEL VENTO

Questa campagna esatta e laboriosa tenere tra le braccia,
masticarla piano, assaporare tra i denti una gioia
assoluta e senza credi, diventare lo sguardo fisso delle vigne,
essere i sentieri che corrono a perdifiato tra gli ulivi, vene
che ingurgitano i verbi della luce, la grammatica breve
degli insetti, le vite infinite e sconosciute, le chiome
nebulose dove si frange il volo della gazza, le aperte
geometrie, se potessi questa terra ingoiarla, digerirne
le masserie lucide di calce e di silenzi, essere il brusio
delle finestre, il richiamo misterioso dei pozzi, se potessi
essere la memoria di tutti i fili d’erba, essere io lo sguardo
il suono, il confine del vento.

MARIA GRAZIA CALANDRONE, CANZONE

Canto perché ritorni
quando canto
canto perché attraversi tutti i giorni
miglia di solitudine
per asciugarmi il pianto.

Ma ho vergogna di chiederti tanto
e smetto il canto.

Canto e sono leggero
come un fiore di tiglio
canto e siedo davvero
dove mi meraviglio:

all’inizio del mondo

c’è l’ombra bianca delle prime rose
che non sono più amare
perché canto e ti vedo tornare
come tornano a riva le cose:
senza passato,
con il petto lavato
dal mare.

Ecco!,

sali le scale come un ragazzino
che scrolla dalle ciglia una corona di sale,
dà due beccate d’indice
alla porta, s’inginocchia
in fretta, in fretta
dice: “Vieni!,
ti porto al mare” e mi sorride, dalla sua statura
di nevischio e di rose, dalla sua garza d’anima salvata
dalle piccole cose.

Dalla sua bocca bianca ride il mondo
e ridono le cose
trasparenti del cielo
se, girandosi appena
per pudore, dice: “Lo vedi, non ho più paura”

come parlando a un’ombra evaporata
nell’innocenza

calma delle ginestre, a un fiatare di rose
andato via per le finestre
aperte
fino alle fondamenta.

Così mi lasci nell’aperto privo
di peso. E allora canto
lo stare seduti
nel vivo, tutto l’amore privo,
che non smetta

la presenza perfetta
di chi non pesa

ma è senza volontà, senza maceria, senza l’avvenimento
della materia

è solo polvere che tende alla luce.